Dalla Provincia di Lecco di Lunedi 29 Agosto 2005

Allarme dell' appassionato storico locale Gianfranco Scotti sull' ultimo intervento a Malavedo nell' ex - cartiera risalente al 1870
- Deturpata anche la valle del Gerenzone -
La testimonianza di archeologia industriale trasformata in - una mostruosa montagna di cemento -

 

II sonno della ragione genera mostri. Questo celeberrimo titolo di una incisione de "I Capricci" di Francisco Goya si attaglia perfettamente a quanto i nostri occhi colgono, con raccapriccio, ogni qualvolta ci capita di passare lungo la strada per la Valsassina. A Malavedo, guardando la valle del Gerenzone, un solco lungo e stretto che rappresenta la culla delle nostre fortune industriali, la summa di una lunga storia che risale indietro nei secoli e che qualsiasi altra città da gran tempo avrebbe valorizzato e difeso, sta sorgendo, a ridosso della chiesa del paese, un complesso residenziale di proporzioni terrificanti, una montagna di cemento che scatena un impatto ambientale devastante, un corpo estraneo partorito da una volontà perversa, ma prima ancora infinitamente stolida e incolta, una intrusione che non ha nessuna giustificazione logica e pratica se non quella di sfruttare fino al parossismo l'area a disposizione risultante dalla dismissione di una attività industriale, una delle tante dismissioni che in questi anni si sono succedute e che invece di rappresentare per la nostra città la possibilità di essere ridisegnata con intelligenza e razionalità, hanno finito per essere preda di un insaziabile, e insaziato, cupio aedificandi, una ingorda, forsennata quanto stupida cancellazione del territorio. una lebbra edilizia che tutto ha ingoiato, banalizzato, soffocato e gli esempi certo non mancano. dagli sgorbi del cosiddetto Broletto, allo scempio ambientale di corso Corso Carlo Alberto là dove c'era un tempo la metallurgica Cerosa, scempio cui è stato dato il nome, che è una presa per i fondelli, di "Giardino di Pescarenico", fino agli incredibili, immani edifici già sorti sull'area ex SAE, vero monumento all'insipienza e alla sragionevolezza, e agli edifici che ancora dovranno sorgere su quest'area, falansteri senza soluzione di continuità, laddove si sarebbe potuto e dovuto pensare alla rinascita di questo vasto comparto ai piedi della collina di Acquate non in termini di sfruttamento esasperato del territorio, ma valutando dove si andava a costruire, un angolo delicato e bellissimo della città, intriso di memorie manzoniane (ma chi, fra i nostri amministratori, si preoccupa di queste risibili quisquilie, salvo poi rivendicare una eredità manzoniana strombazzata a ogni pie sospinto ma ormai privata di qualsiasi riferimento al contesto territoriale, distrutto dall'ignoranza, dall'indifferenza, dall'incapacità di pianificare la crescita armoniosa della città?), un luogo che si avvia a diventare, nel volgere di poco tempo, la fotocopia di uno dei tanti quartieri anonimi e squallidi che affliggono le periferie delle grandi città, un destino che a Lecco speravamo fosse risparmiato, non foss'altro che per la sua storia, una nobile storia che intreccia intraprendenza industriale e laboriosità della sua gente, a un retaggio di tradizione manzoniana che avrebbe dovuto (quanta ingenuità!) preservarla da interventi distruttivi e da lacerazioni insanabili al suo tessuto edilizio, al suo volto modesto e nobile a un tempo, sobrio e severo, come sobri e severi sono i lecchesi, dediti al lavoro e alle cose concrete.

Una eredità letteraria che Lecco avrebbe dovuto tenersi ben stretta, cespite economico oltre che patrimonio culturale, un'occasione preziosa per una città alla ormai patetica ricerca di vocazioni turistiche, come conseguenza dell'abbandono delle più importanti attività industriali. Senza contare che una garanzia in questo turbine di trasformazioni del territorio avrebbe dovuto essere rappresentato dal fatto che in più d'un caso i lavori erano stati affidati a nomi altisonanti dell'architettura italiana, professionisti dai quali era legittimo attendersi interventi di qualità, progettazioni d'alto profilo, studi accurati della morfologia delle aree oggetto di così radicali trasformazioni e non, come quasi sempre è avvenuto, l'annientamento sistematico di un ambiente e della sua dinamica storica.

Dopo le aggressioni perpetrate nella città, e che certamente non sono ancora finite, ecco che ora l'ondata distruttrice si sposta nella vallata del Gerenzone, il "Nilo di Lecco", luogo della memoria e testimonianza della fatica, della tenacia, dell'intraprendenza delle generazioni che ci hanno preceduto. Lo scempio di cui si parlava all'inizio riguarda la ex cartiera di Malavedo, un bell'esempio di archeologia industriale risalente al 1870 quando la struttura ospitava il Laminatoio di Malavedo di proprietà di tre dinastie industrali lecchesi. i Redaelli. i Faick e i Bolis.

Nel bei volume "Paesaggi della memoria industriale" che raccoglie gli atti del Convegno tenutosi a Lecco nel novembre del 1990, promosso dal Comune (!) e dai Musei Civici, con interventi dell'allora Sindaco Giuseppe Pogliani e dell'assessore all'Urbanistica, l'attuale sindaco Lorenzo Bodega. una scheda riguarda proprio questo edificio di Malavedo. Si dice che - il complesso appare estremamente interessante anche perché la ristrutturazione di alcuni capannoni ha mantenuto inalterate le originarie caratteristiche degli shed di fine '800, decorati in cotto, gli unici di tutta la vallata -.

La valle del Gerenzone dice l'invito al Convegno «costituisce un'occasione unica per non disperdere la peculiarità della nostra città: la cultura del ferro».

Parole, nient'altro che parole, che i nostri amministratori elargiscono con larga generosità: buona parte degli edifici censiti in quel volume, infatti, è scomparsa e l'idea di realizzare un museo all'aperto lungo la valle che permetta «di visitare antiche industrie, vecchi macchinari e opere idrauliche nella loro collocazione originaria», come dice ancora l'invito del Comune e dei Musei, appare oggi, a distanza di pochi anni, semplicemente grottesca, visto che è proprio il Comune a concedere licenze edilizie dissennate in quella valle e a consentire quindi la distruzione detla memoria e la devastazione dell'ambiente. Quell'edificio mostruoso, sorto come una tumefazione orripilante, è il simbolo, forse il più emblematico fra i tanti che ci circondano, del degrado allarmante in cui versa la città, e dell'incapacità di coloro che si sono succeduti in questi anni al suo governo, a gestirne lo sviluppo, a favorirne la crescita armonica, a conservarne, con intelligente attenzione, la storia e la memoria.

Gianfranco Scotti